Kano Jigoro - La dimostrazione dello spirito culturale del Kodokan (1922)

 

Kano Jigoro - La dimostrazione dello spirito culturale del Kodokan (1922)

 

Il Kodokan è stato fondato ben quarant’anni fa quando io completai l’unificazione delle correnti di jūjutsu originale e vi aggiunsi nuovo senso addestramento del corpo e coltivazione dello spirito. Dopo un po’ di tempo il numero dei praticanti[1] aumentò, giungendo per i soli iscritti diretti a oltre ventimila persone. Sulla base di questa tendenza, si può stimare che si sia giunti a milioni di persone che hanno praticato questa via. Tuttavia, non si può dire che il jūdō abbia dimostrato pienamente il suo spirito culturale, poiché il suo sviluppo fino ad oggi si ferma principalmente all’addestramento fisico e a una base di coltivazione spirituale[2].

Considerando i risultati attuali, non c’è spazio per dubitare che il jūdō stia continuando a dare un grande contributo all’addestramento e alla coltivazione del corpo e del cuore del Popolo[3]. E’ una cosa che si può capire bene provando a pensare a quante persone il jūdō ha conferito la forza fisica di sopportare un lavoro estenuante e uno spirito[4] non distratto dalle difficoltà.

Fra i nostri praticanti di jūdō, vuoi coloro che si alzano presto la mattina, vuoi coloro che sono nei campi, quelli ai quali sono assegnate importanti responsabilità nella società nazionale non sono pochi.

Queste persone, poiché possiedono la forza del corpo e del cuore[5] coltivata dal jūdō, nei casi in cui una persona normale lascerebbe il lavoro a metà, sopraffatta dal carico di lavoro, sono riuscite a portarlo avanti fino alla fine.

Oppure, sono probabilmente parecchi i casi nei quali (una persona normale), non resistendo all’ultima ora o alle ultime due ore di lavoro, al momento di dover terminare a tutti i costi una determinata ricerca o di fare determinati preparativi, non abbia potuto portare a termine quel lavoro, ma una persona addestrata dal jūdō è in grado di sopportare la maggior parte delle cose.

Anche provando riflettendo solo su questo, penso che il contributo alla società[6] sia notevole.

Il pubblico naturalmente riconosce i successi del Kōdōkan, ma non è che non vi siano coloro che, avendo visto in un articolo di giornale che per caso una certa persona che ha studiato jūdō è stata violenta o oppure si è ubriacata e ha fatto questo e quest’altro, equivocano il jūdō come qualcosa che coltiva nelle persone una condotta disonorevole o insegna loro la violenza. Questi equivoci hanno origine dal non conoscere affatto la situazione reale, e penso che chiunque potrebbe comprendere qualora venissero spiegate le cose in concreto. Penso che sia inevitabile che oggi, che il numero di praticanti di jūdō si conta in centinaia di migliaia e in milioni, appaiano di quando in quando persone sconsiderate e disonorevoli. Tuttavia, bisogna comprendere che quelle persone irrazionali, che si iscrivono numerose al Kōdōkan, non sono divenute così dopo avere studiato jūdō, ma erano persone già inizialmente sconsiderate che hanno studiato jūdō, oppure non sono altro che persone che l’educazione del jūdō non è riuscita a trasformare in meglio, malgrado si siano iscritte al Kōdōkan.

Inoltre, di quando in quando qualcuno fa qualcosa di illogico, e di quando in quando si tratta di una persona che ha praticato jūdō, e salta agli occhi perché i giornalisti, trovandolo intrigante, lo pubblicano esagerandolo per renderlo interessante.

Quando gli effetti dell’addestramento al jūdō si manifestano in senso buono, spesso si viene a sapere di altre forme di educazione, oltre al jūdō, che quelle persone avevano ricevuto, perciò (quelle manifestazioni) non saltano particolarmente agli occhi come risultato dell’addestramento al jūdō.

In realtà il Kōdōkan, e in particolare la sede all’interno della città di Tōkyō, sta facendo un grande lavoro per correggere quelle persone che sono imprudenti e sconsiderate. Anche per coloro che non è possibile correggere, si riconosce che (l’addestramento al jūdō) ha una notevole forza per evitare che possano esercitare sugli altri una influenza negativa, dominandoli.

Il Kōdōkan sorveglia e ammonisce senza posa quegli individui e, quando ve ne è necessità, vi aggiunge la punizione, pertanto si può credere che il Kōdōkan non permetta, a coloro tra i suoi iscritti sono sconsiderati, di comportarsi come vuole, e che anzi faccia in modo che si comportino con riguardo[7] nei confronti del Kōdōkan.

Anche così, se il Kōdōkan non esistesse, si può immaginare che vi sarebbero oggi molte più persone sconsiderate di oggi a spadroneggiare all’interno della città di Tōkyō.

Stando così le cose, anche nelle circostanze attuali, penso non siano pochi i modi nei quali il Kōdōkan stia contribuendo alla società. Tuttavia, il Kōdōkan non se ne accontenta. L’obiettivo originale del Kōdōkan è molto più grande. Come dico ogni volta, il Kōdōkan è una cosa di grande valore sia come educazione fisica[8] che come educazione all’etica[9] e alla conoscenza[10].

Volendo esprimere il suo valore come educazione fisica, occorre stabilire un accurato metodo di ricerca basato su studi patologici, fisiologici, igienici etc. E’ necessaria una indagine che prenda in considerazione l’età dei praticanti, la loro costituzione fisica e la loro storia per quanto riguarda ciò in cui si sono esercitati in precedenza. E’ un difetto che al giorno d’oggi non si sia ancora giunti a una ricerca sufficiente in questo senso. Se i futuri praticanti di jūdō non si dedicheranno a queste cose impiegando tutta la loro forza, sarà difficile costruire un metodo certo sia per l’addestramento del proprio corpo che per l’insegnamento.

Anche in merito all’educazione alla conoscenza vi sono numerose opportunità per perfezionare la propria conoscenza delle proprie capacità di osservazione[11], deduzione[12] e decisione[13], ma se coloro che insegnano non fanno attenzione a far esercitare queste capacità quando si presentano le occasioni adeguate, e se coloro che imparano non cercano di mettere in pratica in prima persona ciò che viene loro insegnato, non c’è niente da ottenere dalla sola ripetizione dell’esercizio al combattimento[14] in una condizione di mugamushin[15].

Lo stesso vale per l’educazione all’etica: si devono fare sforzi per costruire buone abitudini e utilizzare ogni opportunità per coltivare un senso etico.

Non è che fino ad oggi queste cose non siano state fatte, ma dal momento che all’interno del dōjō l’attenzione può essere sviata dal vincere o perdere nell’immediato, accade che si trascuri di coltivare il senso etico e di riflettere sulla logica che esiste naturalmente all’interno del vincere e perdere. Per questo, sia che si tratti di educazione fisica che di educazione alla conoscenza o all’etica, se si intende ottenere dei risultati consistenti tramite l’addestramento al jūdō, bisogna impegnarsi ed esercitarsi davvero con quella intenzione.

Negli anni recenti, guardando i tornei interscolastici, mi è venuto il dubbio che spesso, dimenticato l’obiettivo alto del Jūdō, si pensi che l’obiettivo del jūdō sia la vittoria o la sconfitta immediata. Naturalmente è assodato che in combattimento vincere sia un bene e perdere sia un male. Tuttavia, anche nel vincere si deve vincere seguendo la Via, e anche nel perdere si deve perdere seguendo la Via, poiché ha più valore perdere seguendo la Via che vincere infrangendola.

Da una parte, il jūdō è un addestramento al combattimento[16], e contemporaneamente è un metodo di addestramento fisico, oltre che un metodo per coltivare la conoscenza e l’etica. Il risultato di questo addestramento deve essere, contemporaneamente al diventare forte in combattimento, il raggiungimento anche degli altri obiettivi.

Ciononostante, nei tornei interscuola, spesso non si riesce ad ottenere l’opportunità di eseguire l’un l’altro una tecnica perché uno dei due è in attacco mentre l’altro non fa che scappare. Non solo un simile modo di combattere non ha, riflettendoci, alcun valore dal punto di vista dell’educazione fisica, ma non è nemmeno interessante, e i due combattenti non danno vita a molte opportunità tramite la loro inventiva.

Ancora, se uno dei due viene trattato in modo codardo dall’altro, quel sentimento si manifesta naturalmente nella sua azione, e anche se l’altro realizza di stare tenendo un comportamento codardo, giunge a provare sentimenti negativi per il proprio avversario. Questo non è che un singolo esempio, ma cose come queste accadono di frequente, quindi in fin dei conti i combattimenti nei tornei non favoriscono l’armonia[17] fra le scuole, ma diventano causa di disarmonia. Così facendo, il jūdō non solo non coltiva il senso etico, ma diventa qualcosa che lo danneggia. Bisogna dire che questo non è colpa del jūdō, ma di coloro che del jūdō hanno fatto un uso sbagliato. La gara fatta in questo modo non è affatto un modo adeguato di addestrarsi al combattimento. Il vero obiettivo dell’addestramento non è la vittoria immediata durante lo scontro del torneo, bensì, poiché non si può mai sapere quello che può capitare, non essere presi allo sprovvista nel caso di qualcosa che provochi la necessità di uno scontro reale per la vittoria o la sconfitta. Cose come il torneo interscuole non sono altro che una forma di allenamento per coloro che sono in corso di addestramento. Pertanto in quelle occasioni è importante non tanto vincere o perdere, quanto la disposizione a coltivare la forza concreta per non perdere in un vero combattimento. Pertanto insegnare a non far lavorare a sufficienza la forza, a scappare, andare in giro, ad applicare solo metodi di difesa[18], non ha alcun interesse né alcuna possibilità di far progredire le proprie concrete capacità. Da qualsiasi punto di vista vi si rifletta, assumere un simile atteggiamento durante un torneo non è una buona idea. Se si riesce a comprendere il modo giusto di affrontare un torneo, vi è non solo interesse, ma anche non pochi effetti sia dal punto di vista dell’educazione fisica che dell’educazione all’addestramento e alla coltivazione della conoscenza e dell’etica.

Ancora, vi sono modi appropriati per la promozione e la diffusione del jūdō. Se si vuole ottenere un sufficiente risultato in questo senso effettuando dei tornei, il pensiero di coloro che si affrontano nel torneo deve essere, da cima a fondo, compatibile con lo spirito[19] del jūdō. In primo luogo, come detto prima, in quel frangente vincere o perdere non è l’obiettivo principale, è l’obiettivo secondario. L’obiettivo principale è, tramite quell’esperienza, raffinare la propria abilità, accogliere l’altro, mescolarsi a persone di altre scuole e con esse fare keiko[20], affrontare con la tecnica persone di altre scuole e divertirsi a vicenda. Si devono celebrare tornei pensando a che tecnica posseggano coloro che di solito non fanno tornei, che si potrebbe perdere se ci venisse applicata una tecnica inaspettata, quale abbaglio potrebbe prendere l’avversario[21] per via del fatto che non conosce la nostra tecnica, quindi non si tratta solo di un torneo di tecnica di jūdō, ma di confrontare il proprio spirito e il proprio comportamento, raffinati per mezzo del jūdō, con lo spirito e il comportamento dell’avversario, imparare dall’avversario se vi è un punto nel quale siamo mancanti, guidare l’avversario se siamo noi ad essere superiori. In questo momento noi siamo arbitrariamente divisi in scuole[22], ma poiché un domani saremo a lavorare fianco a fianco nella società nazionale, bisogna stringere amicizia in queste occasioni, così da non limitarsi, una volta membri della società nazionale, a qualcosa di ristretto come la scuola nella quale ci si è diplomati.

Penso che, se i tornei si terranno secondo questo spirito, molte delle difficoltà che chi giungono alle orecchie oggi svaniranno, e i presidi delle scuole giungeranno unanimamente a promuoverli.

Bisogna ammettere che, deplorevolmente, non siamo ancora arrivati a questo punto. Il motivo è che il jūdō non ha ancora dimostrato il suo spirito culturale. Le tecniche di jūdō sono importanti, e sono preziose. Tuttavia, se la tecnica esiste da sola, senza essere accompagnata dall’addestramento e dalla coltivazione della conoscenza e dall’etica, le persone non rispetteranno più di tanto i jūdōka. Penso che una tecnica allontanata dall’addestramento e dalla coltivazione possa essere paragonata alla tecnica di un maestro di karuwaza[23], e non riconosciuta come un valore degno di particolare rispetto. Un jūdōka, proprio attraverso l’accumulo della pratica e della ricerca nella doppia via delle Armi e delle Lettere[24], può riuscire per la prima volta a contribuire grandemente alla società nazionale e ricevere il rispetto delle altre persone. Anche l’emendamento, dal prossimo Aprile, del Jūdōkai[25] in Kōdōkan bunkakai[26] al fine di dimostrare più adeguatamente lo spirito culturale del jūdō, viene dalla speranza di far provare alle centinaia di migliaia, ai milioni di praticanti di jūdō il sapore del vero jūdō, e trasmettere il valore del jūdō anche a coloro che non sono ancora giunti fino ad entrare a farne parte.

L’addestramento al jūdō dà lustro tramite l’addestramento e la coltivazione della conoscenza e dell’etica, ma se non si manifesta nella vita di tutti i giorni non lo si può dire una cosa compiuta.

In realtà vi sono numerosi modi di manifestarlo nella vita di tutti i giorni, ma il più vicino deve essere il controllare il proprio cuore nella vita di tutti i giorni. Se, fra coloro che padroneggiano il jūdō, vi fosse qualcuno che rimpiange e si cruccia per i propri sbagli, non lo si potrebbe dire qualcuno che abbia decifrato gli insegnamenti più reconditi del jūdō.

Fin dal principio è auspicabile che i propri errori vengano riconosciuti come tali. Tuttavia, non c’è vantaggio nel dolore e nel rimpianto per gli errori ormai passati. Piuttosto, oltre ad ammettere qualcosa come errore, ripromettersi di non commetterlo una seconda volta, bisogna riflettere se in qualche modo si possa redimere quell’errore, cercare il più possibile di compiere buone[27] azioni, avere l’intenzione di non sprecare minimamente il proprio vigore[28] in cose futili[29].

Una persona che ha padroneggiato il jūdō non dovrebbe dare sfogo all’ira senza una buona ragione. Dare sfogo all’ira è una manifestazione del sentimento che domina la ragione e che ha origine quando la persona perde una condizione mentale composta. Vi è qualche vantaggio nell’ira? Nella maggior parte dei casi spreca una grande parte della propria forza spirituale, e si finisce per far provare all’altro sentimenti sgradevoli oppure odio nei nostri confronti. Anche le lamentele sono così. Non c’è quasi nessun caso in cui lamentarsi vada a vantaggio proprio o dell’altro. Il più delle volte, provando sentimenti spiacevoli, non c’è vantaggio nel risvegliare anche nell’altro sentimenti negativi. Se si ha il tempo di fare cose come queste, non si è mai superato il punto in cui, riusciti a eliminare le omissioni di ciò che è proprio compito fare, si cancellano le cause che provocano della lamentela.

Allo stesso modo ciò che si chiama afflizione[30] non si manifesta in coloro che sono riusciti nell’addestramento e nella coltivazione spirituale. Per cosa mai si affligge la gente?

L’afflizione è la condizione spirituale che origina quando, essendovi tante strade, si è smarriti rispetto a quali scegliere, ma nell’insegnamento originale del jūdō non c’è che una strada da seguire. Secondo l’insegnamento del jūdō dell’usare il più efficacemente possibile la forza del proprio corpo e la forza del proprio cuore[31], se si fa ciò che è generalmente considerato buono ciò è già sufficiente. La frase di otto caratteri che io ripeto sempre, “la via che l’essere umano percorre non ha che un solo orecchio”[32], esprime questo significato. Anche così, forse vi sono coloro per i quali è difficile capire cosa fare perché di vie più rette e più buone[33] sembrano esservene più d’una, e vi sono casi in cui non si può che fare ciò che è il pensiero comune. Tuttavia, pensare e preoccuparsi sono due corse diverse. Inoltre, di solito il pensare non richiede lo spreco di un tempo così lungo. Se nel corso di un viaggio il sentiero giunge a un crocicchio e non vi è nessuno a cui chiedere, è inimmaginabile che qualcuno possa stare lì a preoccuparsene per ore e giorni. E’ probabile che scelga e si diriga per prima cosa in quella direzione che per prima ha pensato fosse giusta, e se questa dovesse essere sbagliata, farà una nuova valutazione[34] e procederà nella direzione che riterrà giusta. Non c’è bisogno di preoccuparsene ancora e ancora. Tutte le cose possono essere risolte allo stesso modo. Vorrei che almeno le persone che si addestrano nel jūdō evitassero di soffrire inutilmente per corse semplici come quelle esposte poco fa.

Se non si riesce ad applicarlo nella vita di tutti i giorni, la vera efficacia dell’addestramento al jūdō non si manifesta. Ciò che più importa sono i bisogni fondamentali[35], ma non so quanto le persone di oggi sprechino in merito ai beni di prima necessità. All’interno vi sono cose non si prestano facilmente al giudizio, e le circostanze del contesto ne rendono difficile l’applicazione. Tuttavia, allo stesso tempo si può sempre fare attenzione a sé stessi e impegnarsi senza dover prendere altro in considerazione. Forse che chiunque non spreca ogni giorno il proprio vigore? Non c’è nessuno che non pensi di diventare la persona migliore possibile e che non voglia fare cose buone. Tuttavia, guardando la realtà, queste persone stanno sprecando il vigore necessario per diventare persone eccezionali, senza farlo lavorare efficacemente. Non impiegando il vigore che serve per fare cose buone, si dedicano alla vita notturna. Senza aspettare di essere istruiti da altri, e per quanto provino ciascuno a pensare per conto proprio, sprecano tutti i giorni una quantità di vigore, e si capisce facilmente che a volte non solo sprecano il proprio lavoro, ma di frequente ne fanno un uso dannoso. Anche dormire troppo, comprano più cose di quante ne occorrano loro, parlare inutilmente intralcia i successi di quelle persone. Per non parlare del fatto che chi beve eccessivamente e fa altre cose non necessarie danneggia il proprio corpo, e ferisce quel successo che egli stesso desidera. Anche cose come l’attività fisica e la lettura, che tutti ritengono buone, superata la misura vanno a detrimento della crescita fisica e dello sviluppo spirituale. Se l’individuo fa attenzione a queste cose per quanto riguarda sé stesso, e se solo si impegna, vi può riuscire senza coinvolgere gli altri.

Anche per quanto riguarda i vestiti, conservarne un numero inutilmente ampio è contrario al senso del jūdō, né si può trascurare di rammendarli quando necessario. Per una cosa come le scarpe, dove una cattiva manutenzione le danneggia rendendole inutilizzabili, al contrario con una manutenzione adeguata possono essere utili a lungo. Anche per quanto riguarda le abitazioni c’è spazio per parecchie migliorie[36]. Si è arrivati oggigiorno a discutere ampiamente dei problemi delle abitazioni, ma poiché penso che per la maggior parte si tratti della presenza di difetti nei metodi dell’architettura giapponese, non v’è modo di risolverli rapidamente.

Se bastasse copiare l’architettura occidentale il problema sarebbe facile, ma poiché il clima è diverso, il terreno è diverso, e vi è la preoccupazione dei terremoti, non si può copiare qualcosa semplicemente perché all’estero va bene. Penso che sia indispensabile ingegnarsi[37] per utilizzare i metodi dell’architettura giapponese, perché è una buona idea utilizzare i materiali che il Giappone produce.

E’ probabile che si farà via via più ricerca sui metodi dell’architettura giapponese aggiungendovi le riflessioni di cui sopra, ma per ora c’è una cosa che penso non si possa fare a meno di mettere in pratica il più possibile: le abitudini alla vita comune.

In passato in Giappone c’era l’abitudine che ogni famiglia costruisse e vivesse in una casa indipendente. Da un punto di vista, questo è veramente comodo e pratico. Tuttavia, con la crescente pressione nel mondo verso la vita nel futuro, penso che sarà difficile preservare (questo stato di cose) per coloro che non sono ricchi. Da qui nasce l’esigenza di insegnare da oggi varie metodi di vita che non implicano un costo. I principali difetti delle case del Giappone odierno sono la presenza di vulnerabilità, il fatto di essere realizzate con materiale ligneo che marcisce facilmente, di conseguenza è facile per i ladri entrare e per gli incendi svilupparsi. Un altro problema è che è difficile uscire di casa senza un custode che se ne prenda cura[38], inoltre, poiché tutte le case sono separate, richiedono spese superflue per la rete idrica, fognaria, elettrica e del gas, il che è straordinariamente antieconomico se paragonato, in termini di economia di spazio, al sistema di tutte le nazioni europee e dell’America in cui un gran numero di famiglie abitano in edifici di grandi dimensioni a più piani, separati internamente. In sostanza, in merito ai bisogni fondamentali vi sono cose che si possono migliorare subito e cose che non si possono migliorare subito, ma penso che si debbano sviluppare dei sistemi per evitare il più possibile lo spreco.

Anche in merito alla Società, come dico sempre, oggigiorno le abitudini che comportano spreco sono numerose, e bisogna cercare di correggerle partendo da una parte. Oggigiorno tutti soffrono per l’apprezzamento del costo della vita. Una delle cause è che ciascuno porta avanti uno stile di vita insostenibile, anche perché, malgrado le entrate non siano cospicue, fanno cose come comprare beni sconsideratamente. Un’altra causa è che, dato il cattivo rapporto con i produttori e con i consumatori, vi sono numerose persone nel mezzo che ne traggono vantaggio. Correggere questa organizzazione e regolare il costo della vita è il più urgente fra i bisogni urgenti. Questo non è un problema individuale, è un problema sociale, ma non penso che, con un po’ di impegno e di ingegno, sia così difficile da risolvere. Pertanto, chi pratica jūdō deve per prima cosa fare in modo di evitare gli sprechi, a partire da ciò che riguarda sé stesso, quindi la società e la nazione, e fare ogni sforzo per migliorare l’efficienza. Per questo sto pensando di fondare il Kōdōkankai, mostrare alle persone come si può completare se stessi[39], come eliminare lo spreco dalla società e come ci si può aspettare uno sviluppo generale. Pertanto è naturale che sia ardente desiderio di ogni persona che anela al jūdō, come persone in generale che hanno a cuore la propria nazione, unirsi a questo gruppo, fare ricerca insieme e contribuire alla società, e ancora ascoltare le idee e i risultati delle ricerche altrui e farne il proprio riferimento personale.   

 

Testo originale

Yukō no katsudō (Attività efficace) Sesto volume, Secondo numero, Febbraio Taishō 11 (1922)

 

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[1] 修行者 shugyōsha. Shugyō è un termine che implica sforzo, pratica, dedizione.

[2] 精神 seishin. E’ in questo senso, non nel senso metafisico / spirituale, che è da intendersi seishin in questo contesto

[3] 国民 kokumin. Coloro che sotto sotto l’autorità dello Stato, coloro che costituiscono lo Stato. Lo stesso termine che si trova nel Seiryoku zen’yo kokumin taiiku, con il medesimo significato.

[4] 精神的 seishin teki. Lungi dall’essere l’entità metafisica occidentale con il quale è spesso, e volentieri, fraintesa, si tratta di “azione del cuore intelligente, razionale, attiva, motivata e cosciente”.

[5] 心身の力 shinshin no chikara

[6] 世を益していること yo wo mashite iru koto.

[7] 遠慮する enryo suru, letteralmente “pensare lontano”.

[8] 体育 taiiku

[9] 智育 chiiku

[10] 徳育 tokuiku

[11] 観察 kansatsu

[12] 推理suiri

[13] 判断handan

[14] 勝負shōbu

[15] 無我無心 mugamushin un cuore senza brama e senza deviazione.

[16] 勝負shōbu

[17] 融和 yūwa. Nella stesura originale dei Principi del Judo, il secondo principio era jita yūwa kyōei 自他融和共栄, “prosperità comune e armonia del Sé e dell’Altro”

[18] 防御 bogyō

[19] 精神seishin

[20] 稽古keiko studiare le arti, in particolar modo quelle di combattimento.

[21] 先方sakikata “la persona di fronte”, usato in luogo del più comune aite 相手, “compagno, avversario”.

[22] 学校 gakkō in senso di istituzione scolastica.

[23] 軽業 keigyō. L’arte di mostrare con abilità tecniche pericolose.

[24] 文武両道 letteralmente “via - entrambi - res militari – lettere”

[25] 柔道会 jūdōkai

[26] 講道館文化会 Kōdōkan bunka kai

[27] zen: ciò che è giusto, etico, buono, piacevole. Da non confondere con l’omofono indicante la relativa corrente buddhista.

[28] 精力La forza attiva del corpo e della mente, senza relazione con “spirito” inteso come entità metafisica.

[29] 無用muyō, letteralmente “senza uso”.

[30] 煩悶 hanmon

[31] 心身の力を最も有効に使用すること shinshin no chikara wo motto mo yūkō ni shiyō suru koto

[32] 人間行路唯有一耳

[33] vedi nota 25

[34] 判断 handan

[35] 衣食住 ishokuju, letteralmente “abiti – cibo – dimora”.

[36] 工夫する kufū suru. Letteralmente “il cercare di ottenere un buon sistema riflettendo a lungo”.

[37] 工夫するkufū suru

[38] 留守居 rusui.

[39] 完成 kansei, letteralmente “finire di diventare”

 

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