Il Judo tradito - rispondere alle falsità sulla cintura nera e bianca

 


 

Femminismo radicale indicato come parte della corruzione della verità storica sul Kodokan Judo e su Kano Jigoro nella retorica post-modernista di Mizoguchi Noriko

Pensavo che l’arte di scrivere cose errate nei fatti e intellettualmente disoneste sul Kōdōkan jūdō affidandosi a dicerie, manomettendo o ignorando le fonti originali e anteponendo l’ideologia all’amore per la verità fosse una nostra prerogativa, e con "nostra" intendo "occidentale". Mi sbagliavo di grosso.

Ho letto, tramite segnalazione di amici, la prima parte della traduzione di uno universitario di Mizoguchi Noriko, la cui pubblicazione in Italia è in corso sulla pagina del gruppo Kogaku kai, e che invito calorosamente a leggere con attenzione. 


Mi pare già di sentire i commenti. “Ma come, ti permetti di contestare una grande campionessa, una che ha studiato, una che ha un PhD?”.

La risposta è molto semplice: certo che sì, se scrive delle fandonie. Non mi interessa chi è che parla, mi interessa quello che dice. E se quello che dice, sia che si parli di un grande maestro che dell’ultimo arrivato, non è corretto, è doveroso segnalarlo. Questo perché sono ligio a un principio che il filosofo Neoconfunciano Wáng Yángmíng sintetizzò in questo motto: 知行合一 “l’unità di ciò che si sa e ciò che si compie”. In altre parole, la tua conoscenza implica la responsabilità ad agire. Per inciso, il pensiero di Wáng Yángmíng era popolare fra i fautori del Rinnovamento Meiji, e anche Kanō lo conosceva e lo apprezzava.

Sono stupito che non ci siano più voci a contestare le affermazioni di questo “studio”, che in un’università seria, o forse in tempi in cui gli articoli universitari dovevano attenersi a standard di un certo livello, non sarebbe mai stato accettato. Sono stupito, ma solo fino a un certo punto. Per motivi professionali mi confronto spesso con ambiti che sono imbevuti di post-modernismo e so per esperienza che ci vuole una certa dose di coraggio anche solo per manifestare dissenso rispetto al conformismo dilagante, figurarsi poi contestare qualcosa dati alla mano.

 

Il Kōdōkan jūdō dovrebbe essere politica? Immagino di sì, se la intendiamo come cura della polis. Dovrebbe essere un campo di battaglia ideologico? No. Assolutamente no. Quindi, senza fare complimenti, ecco perché penso che questo studio sia una vergogna.

 

1.       TITOLO

L’autrice intitola il suo lavoro “il paradosso della cintura nera con la striscia bianca”. Perché sia un paradosso, non ce lo spiega mai.

 

2.       KEYWORDS

La prima parola chiave dell’articolo è “gender”. Prima ancora di jūdō, prima ancora di “cintura nera”, che è il titolo dell’articolo. Ognuno è libero di pensarla come vuole, per carità, ma una scelta del genere è motivata e mi fa capire subito che non ho a che fare con una trattazione bilanciata, ma con un testo caratterizzato da un allineamento ideologico deliberato e ben preciso.

 

3.       ABSTRACT

Questa è la parte in cui si sintetizza il senso dell’articolo. L’autrice parte subito dalla constatazione di uno scandalo, la cui realtà e gravità nessuno discute, che ha coinvolto alcune atlete giapponesi nel 2015. In questo modo si situa il discorso in un’ottica di “vittimizzazione”, che è il tipico modus operandi di chi sposa l’ideologia dell’autrice. Poco dopo, ecco una frase completamente scollegata dall’evento del 2015, eppure illuminante:

 

“The white-striped Judo black belt symbolizes the disrespect directed at Japanese women Judo athletes. Foreign female Judo players wear ordinary black belts ; however, their Japanese counterparts are compelled to wear black belts with a white stripe. Grading regulations are identical for men and women in other Japanese martial arts such as kendo or karate, and women are awarded ordinary black belts just as men”.

 

“La cintura nera di judo con la striscia bianca simboleggia la mancanza di rispetto rivolta alle atlete giapponesi di judo. Le judoka straniere indossano normali cinture nere; tuttavia, le loro controparti giapponesi sono costrette a indossare cinture nere con una striscia bianca. I regolamenti di graduazione sono identici per uomini e donne in altre arti marziali giapponesi come il kendō o il karate, e le donne ricevono normali cinture nere proprio come gli uomini”.

 

Da dove cominciamo?

·       il fatto che la cintura nera con la striscia bianca simboleggi una mancanza di rispetto è una conclusione personale sua, non un dato di fatto.

·       Le atlete giapponesi non indossano più la cintura nera con le strisce bianche perché la All Nippon Judo Federation l’ha dismessa nel 2017. L’articolo è del 2020. Perché l’autrice parla al presente, quindi come se il fenomeno fosse in corso, di qualcosa che, all’epoca in cui l’articolo fu pubblicato, era già in disuso da tre anni?

·       Nel kendō non ci sono cinture, quindi alle donne non vengono “date cinture nere normali esattamente come agli uomini”, e gli esami di kendō non sono gli esami di Kōdōkan jūdō.

 

Mizoguchi Noriko è una campionessa di Kōdōkan jūdō, un’allenatrice, una ricercatrice con un PhD. Devo credere veramente che un’atleta professionista e una ricercatrice non sappia queste cose o non sia in grado di trarre una distinzione adeguata tra Kōdōkan jūdō e kendō?

 

4.       INTRODUZIONE

L’introduzione di un articolo che discute di Kōdōkan jūdō e con scelte che il suo fondatore compì negli anni ’20 si apre con la citazione di una nota autrice femminista radicale che scriveva alla fine degli anni ’40 in un clima politico, sociale e culturale diametralmente opposto a quello giapponese, con cui non ha nulla a che spartire e che di conseguenza non ha i mezzi per interpretare.

 

One is not born, but rather becomes, woman. These famous words by Simone de Beauvoir aptly describe the embedded social and cultural gender differentiation prevailing in patriarchal societies in which men are the preferred first sex and women form the less important second sex. Similarly, men were the first sex in Japanese Judo, and women were relegated to second place (Beauvoir, 1949).

 

«Non si nasce donna, lo si diventa». Queste famose parole di Simone de Beauvoir descrivono in modo appropriato la differenziazione sociale e culturale di genere radicata nelle società patriarcali, in cui gli uomini sono il primo sesso, quello preferito, e le donne costituiscono il secondo sesso, meno importante. Allo stesso modo, gli uomini furono il primo sesso nel judo giapponese, e le donne furono relegate al secondo posto (Beauvoir, 1949).

 

Può sembrare cosa da poco, ma il fatto che Mizoguchi Noriko abbia messo la parentesi con il riferimento testuale alla fine del paragrafo, e non alla fine della citazione, fa sembrare che Simone de Beauvoir abbia in effetti parlato del Kōdōkan jūdō, cosa che non ha mai fatto. Inoltre, una rapida occhiata alla bibliografia mostra che Mizoguchi Noriko ha fatto ampio riferimento a testi di post-modernisti francesi, ma ben poco riferimento agli scritti del fondatore del Kōdōkan jūdō o dei maestri che l’hanno seguito. Ad esempio, dalla bibliografia è assente l’opera omnia di Kanō Jigorō, La Grande Storia del Jūdō Giapponese del 1939, la Storia del Jūdō Mondiale di Maruyama Sanzō, e via dicendo. Non è un handicap da poco, come vedremo in seguito. Procediamo.

 

In fact, women were long prohibited from engaging in Judo. When they were finally accorded the right to play, they were compelled to sport whitestriped black belts that differentiated them from the male players.


 In realtà, alle donne fu a lungo proibito di praticare il jūdō. Quando infine fu loro concesso il diritto di praticarlo, furono costrette a portare cinture nere con la striscia bianca che le distinguevano dai praticanti maschi.


L’autrice inoltre sa, perché è andata a scuola, che c’è una differenza sostanziale in giapponese tra kubetsu 区別 “distinzione” e sabetsu 差別 “discriminazione”. Il fatto di avere una cintura diversa, ma dello stesso grado, è in antitesi con le pratiche culturali del Giappone rispetto alla distinzione, non discriminazione, tra uomini e donne? Beh…

·       La lingua giapponese varia a seconda che a parlarla sia un uomo o una donna.

·       I kimono degli uomini sono diversi da quelli delle donne e indossati in modo diverso. Stesso discorso per gli hakama.

·       Esiste un giorno per i bambini maschi e un giorno per le bambine femmine.

·       Esistono riti shintō per i bambini maschi e riti shintō per le bambine femmine.

·       Nell’architettura templare shintō ci sono santuari “maschi” e santuari “femmina”, (basta vedere Fosco Maraini, l’Agape Celeste), che si distinguono per la forma di certe decorazioni.

Quindi le distinzioni, non le discriminazioni, sono semplicemente all’ordine del giorno. Perché meravigliarsi tanto che Kanō Jigorō avesse stabilito una differenza nell’aspetto delle cinture è francamente incomprensibile.

 

Whitestriped black belts appear dimensionally diminished to half their value because of the white line running through the center of the black belt.

 

“Le cinture nere con la striscia bianca appaiono ridotte dimensionalmente a metà del loro valore a causa della linea bianca che corre al centro della cintura nera.”

 

Qui l’autrice sta sostenendo che la cintura nera sembra meno di valore perché c’è meno nero e più bianco. È il bianco che fa apparire la cintura meno prestigiosa? Eppure, come l’autrice sa perfettamente, anche la cintura del teorico dodicesimo dan è bianca. Dove è scritto, nello specifico e precisamente negli scritti di Kanō Jigorō, che la cintura femminile è concepita in quel modo per far sì che a colpo d’occhio sia meno importante? Da nessuna parte.

 

5.      L’INTRODUZIONE DELLA CINTURA NERA CON LA STRISCIA BIANCA

Tutta la sua discussione si regge sul presupposto che sia sempre tutto, comunque, frutto di una scelta deliberata a monte concepita con lo scopo di discriminare le donne e avvantaggiare gli uomini. Che è in buona sostanza il discorso post-modernista di matrice francese. E a scriverlo è una donna ha praticato Kōdōkan jūdō, è stata campionessa, allenatrice, e che ha studiato fino al dottorato. Non esattamente la biografia di un individuo oppresso dalle strutture di potere del patriarcato.

 

In the Taisho era, the white stripe symbolized schools for girls. Some people may have felt that the whitestriped black belts signified disdain for female judokas but others felt that they did not indicate differences in professional competence but were, instead, merely prettier.


Nell’epoca Taishō, la striscia bianca simboleggiava le scuole femminili. Alcuni potevano aver ritenuto che le cinture nere con la striscia bianca significassero disprezzo per le judoka, ma altri pensarono che non indicassero differenze di competenza professionale, bensì che fossero semplicemente più graziose.

 

La prima frase è sinceramente incomprensibile. Non c’è nessuna ragione particolare per cui la fascia debba simboleggiare le SCUOLE. Immagino si tratti di un errore dell’inglese.

Su quali fonti si basano questi “si dice”? Non ci sono riferimenti testuali di nessun tipo, né citazioni, quindi si tratta o di aneddoti, che hanno ben poco valore accademico, oppure di conclusioni a priori, che ne hanno ancora meno.

 

Those who joined the Kodokan womens club were upperclass girls associated with Kanos normal school or women connected to political parties. It was estimated that women judokas could be injured in matches with men. Thus, they were required to wear whitestriped black belts to distinguish and protect them from harm.

Coloro che si iscrivevano al club femminile del Kōdōkan erano ragazze dell’alta società collegate alla scuola normale di Kanō oppure donne legate a partiti politici. Si riteneva che le judoka potessero ferirsi negli incontri con gli uomini. Perciò fu loro richiesto di indossare cinture nere con la striscia bianca, per distinguerle e proteggerle da eventuali danni.

 

Anche qui, mancano riferimenti testuali precisi e dunque è difficile valutare su cosa l’autrice basi le sue affermazioni. È certamente vero che le prime affiliate al Kōdōkan erano di censo relativamente elevato, ma questo è da inquadrare nel contesto storico dell’epoca: l’educazione femminile era fortemente incoraggiata, invece che ostacolata, a ulteriore riprova del fatto che la lettura “patriarcale” del Kōdōkan in particolare e della cultura del Giappone nell’Epoca Taishō in senso lato è una generalizzazione forzata e imprecisa.

In cosa poi consista l’affronto di voler distinguere uomini e donne e impedire che ci si facesse male, sinceramente non lo capisco. Anche questa affermazione, peraltro, non è suffragata da nessuna nota al testo o riferimento bibliografico.

 

However, unlike the mens Judo organization, the Kodokan womens club emphasized spiritual training, female beauty, and etiquette to train women to conform to the Japanese feminine ideal of Ryo Sai Kenbo 良妻賢母 (good wife, wise mother). This patriarchal educational ideal encouraged Japanese women to aspire to become good wives for their husbands and sagacious mothers for the apt nurture of their children.

 

Tuttavia, a differenza dell’organizzazione maschile del judo, il club femminile del Kōdōkan poneva l’accento sull’addestramento spirituale, sulla bellezza femminile e sull’etichetta, per formare le donne a conformarsi all’ideale femminile giapponese di Ryōsai Kenbo 良妻賢母 (“buona sposa, saggia madre”). Questo ideale educativo patriarcale incoraggiava le donne giapponesi ad aspirare a diventare buone mogli per i loro mariti e madri sagge per l’adeguata crescita dei loro figli.

 

Nel corso della mia vita in Giappone ho avuto la fortuna di conoscere molti maestri e studiare molte cose. Cerimonia del Tè, Danza Classica Giapponese, Calligrafia, Iadō, Kendō. Ogni singola arte tradizionale giapponese con finisca con un dō è concepita per affinare l’essere umano, e di conseguenza, nella prospettiva giapponese, anche per insegnare l’etichetta e le buone maniere. Sia agli uomini, che alle donne. L’autrice sta, in maniera straordinariamente disonesta, cercando far passare il messaggio che le buone maniere fossero solo per le donne. Tra l’altro, di lì a pochi anni, la riforma scolastica porterà alla nascita della Kokumin gakkō (La Scuola del Popolo), in cui le ragazze studiavano l’uso del naginata. Quindi tutto il discorso sulla concentrazione dell’addestramento solo sugli espetti estetici e spirituali cade immediatamente.

Non solo, ma Kanō scrive ripetutamente che i kata come l’Itsutsu no kata, il Jū no kata e il Koshiki no kata hanno un valore artistico affine alla danza, e di conseguenza gli uomini, che li praticavano, erano essi stessi esposti alla coltivazione della loro interiorità e della loro sensibilità estetica.

Per non parlare del fatto che l’ideale della “buona sposa, saggia madre” è un’idea di origine cinese che andrebbe a sua volta letta ed inserita nel contesto che le compete, che non è certamente quello dei circoli accademici francesi del ’68. Criticare il passato in base al presente è un’operazione che riesce bene a chi sposa una determinata ideologia, ma del punto di vista della ricerca storica serve a ben poco.

 

At the Kodokan, male judokas were prohibited from entering the womens dojo and women never associated with men other than Kano himself or with leaders designated by Kano. In that period, girls in Japan were prohibited from playing matches and were thus not accorded the opportunity to rise up the rankings.

 

Al Kōdōkan, ai judoka uomini era proibito entrare nel dōjō femminile e le donne non avevano rapporti con uomini se non con Kanō stesso o con i dirigenti da lui designati. In quel periodo, alle ragazze in Giappone era proibito disputare incontri e di conseguenza non veniva loro concessa l’opportunità di avanzare nei gradi.

 

A parte l’ormai consueta mancanza di riferimento bibliografico, che per l’ennesima volta denota una pratica accademica quantomeno bizzarra, cosa significa esattamente “playing matches”? L’autrice non distingue tra randori e shiai, e parliamo di un’esperta, il che mi lascia molto perplesso. Vuol dire che le donne non facevano randori? O non facevano shiai?

Qual è precisamente il problema nell’avere spazi riservati alle donne in cui gli uomini non potevano entrare? Ecco il classico gioco post-modernista e la classica prassi della vittimizzazione: le donne hanno un dōjō che è riservato a loro, in cui gli uomini non possono entrare, ma il fatto di avere uno spazio riservato solo per le donne le vittimizza.

 

Veniamo alla questione dello shiai. Se si prende in mano Kanō, sia quello autentico in giapponese che nelle varie traduzioni, ci si rende immediatamente conto che a Kanō, dello shiai in quanto tale, importa poco. Anzi, più volte si lamenta che il Kōdōkan jūdō o i suoi allievi si concentrano troppo sul combattimento e non abbastanza sulla pratica del kata. Può avere senso allora che gli esami di passaggio di grado fossero basati proprio su quello che Kanō deplorava, mentre Kanō era ancora vivo? No.

E infatti, leggendo i regolamenti del 1920 e del 1927, non c’è scritto che l’avanzamento di grado è mediato unicamente dallo shiai. Anzi, in un articolo apparso di Jūdō nel 1918, mette esplicitamente in guardia i jūdōka dal confondere la vittoria nello shiai con l’avanzamento automatico di grado, e specifica invece che si deve dare peso al numero e alla qualità delle tecniche conosciute, e alla comprensione dei principi del jūdō.

Il paragrafo si chiude con una affermazione che sembra indicare che si faceva apposta a non permettere alle donne di combattere nei tornei in modo che non potessero avanzare di grado. Dal momento che si tratta di una decisione ai massimi livelli, l’implicazione è che fosse Kanō a non voler concedere alle donne la possibilità di acquisire dei dan. Non c’è nessun tipo di riscontro testuale di nessun genere che autorizzi a fare un’affermazione simile, specie nei confronti dell’uomo che ha effettivamente aperto la pratica del Kōdōkan jūdō alle donne, e infatti l’affermazione non è suffragata da alcuna citazione o riferimento.

Chi ha il libro I Fondamenti del Judo può andare a controllare l’articolo a p.66 “L'organizzazione dei Passaggi di Grado” e verificare di persona che lo shiai non era né lo strumento principale né un elemento indispensabile alla promozione a primo dan, quindi tutta l’argomentazione sul fatto che le donne non potessero avanzare di grado perché non potevano combattere crolla immediatamente.

 

6.       UNO SCONTRO DI JUDO MISTO PRIMA DELLA GUERRA

L’autrice descrive il Dai Nippon Butokukai come

 

A rural organization called Dai Nippon Boutokukai

Un’organizzazione rurale chiamata Dai Nippon Butokukai.

 

Ora, rurale ha un significato ben preciso. Per essere esatti, il Dai Nippon Butokukai nacque a Kyōto, che non è campagna bensì la capitale del Giappone per un migliaio di anni prima dell’avvicendamento con Edo, l’attuale Tōkyō, e non aveva proprio niente di campagnolo essendo nato per impulso di membri influenti della società, al punto che al suo vertice venne messo un membro della famiglia imperiale.

Quello che l’autrice sta cercando di fare è tracciare un falso solco tra il Kōdōkan, accusato di essere elitario e quindi reazionario e oscurantista in quanto espressione della borghesia cittadina, e il Butokukai, che in quanto ente rurale era più libero. Come lo possa fare, sapendo che è giapponese e sa perfettamente che le cose non stanno così, lo trovo stupefacente.

Per intenderci: il Dai Nippon Butokukai era nato per preservare e trasmettere la tradizione marziale (parola chiave: tradizione), sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista etico. Qual era l’etica marziale? Il Neoconfucianesimo, lo stesso che l’autrice ha criticato letteralmente una pagina fa perché aveva portato l’idea delle donne come buone spose e sagge madri.

La Storia giapponese ci mostra che diverse donne appartenenti alla classe dei samurai furono, in effetti, buone spose, sagge madri, e brave combattenti. Non si tratta di condizioni mutualmente esclusive. Io personalmente sono sposato con una discendente di una famiglia samurai e ho sentito direttamente dalla voce della direttrice dell’Associazione Bushidō queste parole: “se i bushi erano così valorosi in combattimento, non lo si deve anche al fatto che c’erano delle madri a crescerli così?”. Di conseguenza, le virtù marziali erano implicitamente ed esplicitamente patrimonio sia degli uomini che delle donne, e acquisire le une non significava rinunciare all’educazione, come ben sa chi conosce la massima bunbu ryōdō 文武両道. È la retorica postmodernista che deve trovare vittime dove non ce ne sono, tracciare divisioni arbitrarie dove non ne esistono, e leggere qualunque espressione del rapporto tra esseri umani come un gioco di potere volto alla prevaricazione. Ci serve questo per comprendere meglio le arti marziali, il Kōdōkan jūdō? No.

 

Negli ambienti proni al post-modernismo è invalso l’uso di mettere quelli che si chiamano “trigger warning”, degli “avvisi” che quello che si sta per ascoltare, vedere o leggere potrebbe offendere la sensibilità di qualcuno.

Ora a me non interessa se i fatti offendono qualcuno, ma mi adeguo momentaneamente a una pratica che non condivido: i fatti oggettivi descritti nel prossimo paragrafo potrebbero urtare la sensibilità emotiva di qualcuno. Leggete a vostra discrezione o saltate a quello seguente.

 

Katsuko Kosaki 小崎甲子defeated three men in five challenges in the promotion examination match held at the Boutokukai in 1932. She was the first woman to be placed in the first dan at the Boutokukai. After this feat, Kano awarded Kosaki the honor of becoming the first woman to be placed at the first dan in Kodokan.

 

Katsuko Kosaki 小崎甲子 sconfisse tre uomini in cinque incontri nella prova d’esame per la promozione tenutasi al Butokukai nel 1932. Fu la prima donna a essere collocata al primo dan presso il Butokukai. Dopo questa impresa, Kanō conferì a Kosaki l’onore di diventare la prima donna a essere collocata al primo dan al Kōdōkan.

 

Chi ha letto I Fondamenti del Judo ricorderà certamente un certo articolo “Kodokan e Butokukai”  in cui Kanō Jigorō, il fondatore del Kōdōkan jūdō, parla del rapporto tra Kōdōkan e Butokukai. Per completezza, prima di procedere, ricordo che il Kōdōkan è nato nel 1882, il Butokukai nel 1895, e che Kanō Jigorō era sia il fondatore del Kōdōkan che il direttore del Dipartimento Jūjutsu del Butokukai. Quindi, comunque la si voglia mettere, i fatti sono che il Kōdōkan aveva la precedenza, sia dal punto di visto cronologico che dal punto di vista della legittimazione.

Fatta questa premessa, nel suddetto articolo Kanō dice:

 

“[…] Il Butokukai adottò il Kōdōkan jūdō come metodo educativo, perlomeno nella sede centrale, affidato a insegnanti che, anche con numerose sostituzioni, non vennero mai designati al di fuori dei discepoli del Kōdōkan; il che significa che nella scuola Butokukai si insegna il Kōdōkan jūdō in ogni senso […]

 

Quindi, comunque la si voglia mettere, il dato di fatto è che il Butokukai usa il Kōdōkan jūdō, non un tipo di jūdō diverso. So cosa significa fare un’affermazione come questa sapendo che in Italia ci fu Abe (con una sola b) Kenshirō e che mosse determinate critiche al Kōdōkan, ma immagino si trattasse dell’Istituzione, non della disciplina. Proprio come il jūdō è sempre stato e sarà sempre giapponese, perché è nato là, da un giapponese, secondo tecniche e principi profondamente giapponesi, il jūdō è e resterà Kōdōkan jūdō, perché è così che è nato. Il suo nome è proprio quello.

Procediamo. Rinnovo l’invito ad approfittare del trigger warning a chi cominciasse a sentirsi infastidito.

La versione giapponese dell’articolo è reperibile nell’Opera Omnia di Kanō, Vol.1, p.303. La traduzione italiana si discosta in una certa misura dell’originale, ma è untema che ho trattato in passato e su cui non mi soffermo qui. Questa è la trascrizione delle pagine 306 e 307:

講道館においては古くから段制度を設け、級の上に初段があり、それが二段、三段と、十何段でも限りなく進むことになってゐるのである。武徳会の本部で修行してゐるものも、勿論講道館柔道を行ふものであるから、以後は武徳会の教師の申出により、講道館において相当の段に進むることにして、修行者の数も殖え、教師の資格者が漸々増加することになったのである。そのうち、東京の講道館本館に申出できるも、武徳会において段を授けて支部の相談に与り、最後の決定をすることにしたのである。

それも最初のうちは、低い段に限り承認を与えて段を授けることにしてゐたが、後には更に進め、六段以上に当るものも、五段に進むものも、剣道にも段制度を設け、高段に及し、そのうち武徳会においては定めた委員の銓衡によって決定することにしてゐるのである。

今日は移り易く、柔道は大体上の通りであるが、ここに一の問題が生じてきた。それは、最初武徳会が京都で育ったものであったから、特に当時京都においては、講道館の段に無関係に、武道会において道場の認めたとか、また講道館の審議員の意見も聞かずに、むやみに昇段せしめてしまったといふやうな例がしばしば出てきた。

それはもう種々の苦情が生じてきたのである。それをもつと合理的に解決したいものと思つてゐるのである。武徳会さへ同意すれば、段は元来講道館のものであり、教師・範士は武徳会のものであるから、講道館で教師・範士を与えぬやうに、武徳会は段を与えぬことにし、段は講道館のみであるが、武徳会においては、柔道のみならず剣道にも今後それをやめて、異なつた審議機関の申合せによって、各自適当と認める標準によって、勝手に昇段せしむるといふやうなことがあつては、せつかく継続された柔道の階段を破壊することになるのであるから、この弊害を除くことに努力せねばならぬ。

それで、自分は、一面に京都における重なる柔道関係者と、種々解決方につき熟議してゐると同時に、武徳会の会長、副会長としばしば会合して、協議してゐるのである。遠からず、何とかだれしもが満足するやうに解決したいものである。

Al Kōdōkan, da lungo tempo, fu istituito il sistema dei dan: al di sopra dei kyū vi è il primo dan, poi si procede a secondo dan, terzo dan, e così via, senza limite, potendo avanzare anche oltre il decimo dan. Poiché coloro che si addestrano presso la sede centrale della Butokukai praticano naturalmente anch’essi il jūdō del Kōdōkan, in seguito, su richiesta degli insegnanti del Butokukai, si stabilì che avanzassero al corrispondente dan presso il Kōdōkan; così il numero dei praticanti aumentò, e crebbe via via anche quello dei qualificati come insegnanti. In quel frangente, pur potendosi presentare domanda alla sede centrale del Kōdōkan a Tōkyō, si stabilì che fosse il Butokukai a conferire i dan, a prendere parte alle consultazioni delle proprie filiali, e che la decisione finale venne presa in tal modo.

Anche questo, all’inizio, si applicava soltanto ai gradi bassi, si concedeva l’approvazione e si conferivano dan entro quel limite; successivamente, tuttavia, la pratica si estese ancora, giungendo a comprendere coloro che avanzavano sino al quinto dan, persino al sesto dan e oltre. Anche nel kendō fu istituito un sistema di dan, esteso fino ai gradi elevati, e in tali casi si stabilì che il Butokukai decidesse in base alla valutazione di commissari da esso designati.

Oggi la situazione è mutevole, e per il jūdō le cose stanno in sostanza come ho descritto; ma qui è sorto un problema. Poiché il Butokukai ebbe origine a Kyōto, avvenne in particolare che allora, a Kyōto, indipendentemente dai dan del Kōdōkan, si riconoscesse (il dan a un praticante, n.d.T.) nel seno del Butokukai per semplice approvazione di un dōjō, e inoltre, senza neppure ascoltare l’opinione dei consiglieri del Kōdōkan, si promuovessero persone in modo indiscriminato. Tali casi si sono verificati spesso. Ciò ha prodotto naturalmente ogni sorta di lagnanze. Ho pensato che occorra risolvere la cosa in modo più razionale.

Se soltanto il Butokukai acconsentisse a questo: i dan sono in origine del Kōdōkan, mentre i titoli di kyōshi e hanshi sono del Butokukai. Come il Kōdōkan non conferisce i titoli di kyōshi o hanshi, così il Butokukai non dovrebbe conferire i dan; i dan devono appartenere al Kōdōkan soltanto.

Tuttavia, nella Butokukai, non solo nel jūdō ma anche nel kendō, si è verificata la tendenza a discostarsi da ciò, e mediante intese di diversi organi deliberativi, a promuovere a dan secondo criteri che ciascuno riteneva opportuni, a propria discrezione. Così si distrugge la progressione graduale del jūdō, mantenuta con tanta cura; di conseguenza, tali abusi vanno rimossi con impegno sincero. Per questo motivo, da un lato io discuto a fondo con i principali uomini di jūdō di Kyōto circa i possibili rimedi; al tempo stesso mi incontro e mi consulto frequentemente con il presidente e il vicepresidente della Butokukai.

Spero vivamente che, non tra molto, si possa giungere a una soluzione tale da soddisfare tutti.

 

Questo vuol dire che il Butokukai non aveva il permesso né il diritto di emettere i dan indipendentemente dal Kōdōkan, principalmente perché aveva il proprio sistema di titoli (renshi, kyōshi, hanshi). Kanō è precisissimo: “i dan devono appartenere al Kōdōkan” proprio perché il Kōdōkan jūdō apparteneva al Kōdōkan.

Il Butokukai non si attenne a questa limitazione, come sa chi conosce la vita di Abe Kenshirō prima di venire in Europa, e di conseguenza questo provocò dei problemi seri nei rapporti tra Kanō Jigorō e il Butokukai. È per questo, non per colpa del patriarcato oppressivo, che i dan del Butokukai erano illegittimi. La dimostrazione migliore ci viene da Abe Kenshirō stesso: quando, in polemica con il Kōdōkan, tentò di restituire i propri dan, il Kōdōkan rifiutò: non essendo stato il Kōdōkan a conferirglieli, non poteva accettarne la restituzione.

 

Giusto per prevenire possibili fraintendimenti: non sto in alcun modo mettendo in dubbio la competenza di Abe Kenshirō, la sua legittimità o abilità come insegnante, né alcun altro aspetto dell’individuo in quanto tale.

 

L’articolo risale all’aprile 1932, lo stesso anno in cui Kosaki riportò la sua vittoria nel torneo del Butokukai. Abe Kenshirō ottenne il 2° dan a 17 anni, nel 1932. Il lettore può analizzare le parole di Kanō in merito alle azioni del Butokukai relative all’attribuzione dei dan e trarre le relative conclusioni.

 

The Butokukai, of which Kosaki was a member, women were accepted and practiced Judo with men. They were also allowed to test for promotion to the next level under the same conditions as men.

 

Nel Butokukai, di cui Kosaki faceva parte, le donne erano accettate e praticavano il jūdō insieme agli uomini. Era inoltre loro permesso sostenere gli esami di promozione al grado successivo alle stesse condizioni degli uomini.

 

Non c’è nessuna fonte che confermi l’affermazione di Mizoguchi, tranne Mizoguchi stessa. Al contrario, c’è abbondanza di prove a sostegno della tesi opposta: il racconto della prestazione di Kosaki la descrive come un’eccezione, non come la norma. Il Butokukai aveva la propria sezione femminile e aveva programmi di addestramento riservati alle donne, quindi sostenere che l’allenamento misto fosse la prassi è un azzardo non supportato dai fatti.

 

In 1939, she was designated the first female Judo Renshi, a title designating an exceptional instructor.


Nel 1939, fu designata come la prima donna Jūdō Renshi, un titolo che designava un’istruttrice eccezionale.


Sono sinceramente incredulo, e devo per forza immaginare che si tratti di un refuso. L’autrice, in quanto esperta e in quanto giapponese, non può non sapere che renshi 練士 era in effetti il titolo più basso tra quelli offerti dal Butokukai, e indica semplicemente qualcuno che è in corso di addestramento, non un istruttore (kyōshi 教師) né tantomeno un maestro (hanshi 範士). L’errore è così macroscopico che deve essere per forza questo, un errore. Oppure, come è successo ad altri autori in passato, l’autrice conta sul fatto che gli occidentali generalmente non parlano giapponese e di queste cose non se ne accorgono.

 

Kosakis achievements transcended gender differences between men and women and her title of Judo Renshi became an accomplishment that overturned the gender concepts of her times.

 

I risultati di Kosaki trascendevano le differenze di genere tra uomini e donne, e il suo titolo di Jūdō Renshi divenne un traguardo che rovesciò i concetti di genere della sua epoca.

 

In effetti, con buona pace dell’autrice, i concetti di genere dell’epoca rimasero esattamente gli stessi almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale, dieci anni dopo, quindi non si capisce a cosa voglia alludere la frase.

 

but after Kosaki was promoted at the Boutokukai, the organization was compelled to follow suit and establish a promotion pathway for the Kodokan womens club.

 

Ma dopo che Kosaki fu promossa al Butokukai, l’organizzazione fu costretta a fare lo stesso e a istituire un percorso di promozione per il club femminile del Kōdōkan.

 

Qui l’autrice sostiene che la vittoria di Kosaki obbligò l’organizzazione (cioè il Kanō) a istituire un modo perché anche le donne venissero promosse. Sembra abbastanza curioso pensare che si potesse costringere Kanō a gestire la propria associazione in un determinato modo per via del fatto di avere ricevuto un dan al di fuori dell’associazione stessa. Ignorando tra l’altro il fatto che la sezione femminile esisteva già dal 1926 e che non c’è menzione di alcuno scritto di Kanō in cui egli discuta le proprie intenzioni o i propri progetti per il jūdō femminile.

 

At the Kodokan, Noritomi skipped the first dan and was awarded second dan. This promotion made Noritomi the leading female Kodokan Judoka ; however, Kosaki was ahead because she had actually won matches.

 

Al Kōdōkan, Noritomi saltò il primo dan e fu insignita direttamente del secondo dan. Questa promozione rese Noritomi la principale judoka femminile del Kōdōkan; tuttavia, Kosaki era in vantaggio perché aveva effettivamente vinto degli incontri.

 

L’autrice sta sostenendo che delle due, Kosaki era superiore a Noritomi poiché aveva vinto dei combattimenti.

Abbiamo visto che le regole di promozione del Kōdōkan richiedevano non solo la vittoria in quanto tale, ma la conoscenza della tecnica e la comprensione dei principi. L’autrice vorrebbe invece rappresentare l’avvenimento come uno sgarbo a Kosaki e indicarla come superiore per via del fatto che ha riportato delle vittorie. Il che è come dire che Saigō Shirō o Tomita Tsunejirō erano superiori a Kanō perché, a differenza di lui, avevano effettivamente combattuto. E tutto questo mentre si deplora la deriva eccessivamente orientata al combattimento e alla vittoria del jūdō maschile. Il ragionamento è assolutamente illogico e in stridente contraddizione con se stesso, ma riesce splendidamente nel gioco post-modernista di trasformare qualunque situazione in un insulto, una prevaricazione o una lotta di potere. A servizio, naturalmente, non della conoscenza o dell’avanzamento del Kōdōkan jūdō, ma dell’ideologia post-modernista in quanto tale.

 

7 LA DIFFERENZA TRA LA CINTURA NERA E LA CINTURA NERA CON LA STRISCIA BIANCA

Kano was obliged to introduce a whitestriped black belt at the Kodokan womens club.

Kanō fu obbligato a introdurre una cintura nera con la striscia bianca nel club femminile del Kōdōkan.

 

Da chi fu obbligato Kanō, il fondatore e direttore del Kōdōkan? L’autrice non ce lo dice. Lo afferma e lo lascia alla nostra volontà di crederlo, come la grandissima parte delle sue affermazioni in questo studio, senza circostanziarlo, spiegarlo, o dimostrarlo in alcun modo.

 

The Boutokukai awarded a solid black belt to women, while the Kodokans black belt for women included a white stripe.

 

Il Butokukai conferiva alle donne una cintura nera piena, mentre la cintura nera femminile del Kōdōkan includeva una striscia bianca.

 

A parte la constatazione del dettaglio concreto, in quale misura questo è un problema, e perché non è più facile spiegarlo con la volontà di distinguere i gradi attribuiti dal Kōdōkan, sulla base dei propri programmi e dei propri principi, da quelli che il Butokukai attribuiva arbitrariamente senza consultarsi con il Kōdōkan, malgrado la disciplina appartenesse nei fatti ai Kōdōkan?

 

After world war , the general headquarters (GHQ) of The Supreme Commander for the Allied Powers ordered the dissolution of the Butokukai

 

Dopo la seconda guerra mondiale, il quartier generale (GHQ) del Comandante Supremo delle Potenze Alleate ordinò lo scioglimento del Butokukai.

 

Questa affermazione è completamente falsa. È sufficiente controllare il materiale a disposizione gratuitamente presso la Biblioteca Digitale della Dieta Giapponese per verificare subito che il Comando Supremo Alleato non dette mai un ordine simile, mentre è vero il contrario: fu il Butokukai ad autocensurarsi e a sciogliersi in previsioni di possibili purghe per quei membri che erano stati complici del regime durante la guerra. Ho discusso e dimostrato ampiamente l’infondatezza di questa falsa nozione in questo studio:

https://acquautunnale.blogspot.com/2024/10/proibizione-budo-dopoguerra.html

 

Come risultato, il Kōdōkan tornò ad essere l’unico ente legittimato ad attribuire i dan, e le sue regole tornarono ad essere le uniche valide nell’ambiente della disciplina che da esso era originata, comprese quelle relative alla striscia bianca sulla cintura femminile. Per l’autrice,

 

This mandate was confusing and discriminatory for many female Butokukai judokas, who were now compelled to adopt the whitestriped black belt.

 

Questo mandato risultò confuso e discriminatorio per molte judoka del Butokukai, che ora erano costrette ad adottare la cintura nera con la striscia bianca.

 

Come possa essere discriminatoria una regola che vale per tutte indistintamente, non lo riesco a capire.

 

8 FEMMINISMO E COMPETIZIONE

According to Kanokogi, some of the Japanese leaders of the time applied the customs and rules of Japanese society within the dojo and seemed like dictators. When the lesson was over, Sensei ordered his student to drink beer with him. The woman was there as well, pouring beer. I hated it because I thought it was like Geisha.

 

Secondo Kanokogi, alcuni dei dirigenti giapponesi dell’epoca applicavano nel dōjō le usanze e le regole della società giapponese e sembravano dei dittatori. “Quando la lezione era finita, il Sensei ordinò al suo allievo di bere birra con lui. C’era anche la donna, che versava la birra. Lo odiavo perché pensavo che fosse come una geisha”.

 

Ecco l’ennesima rappresentazione della vittimizzazione ad hoc. Eppure, come gentilmente ci fa presente l’autrice, si tratta di “regole e costumi della società giapponese”. Regole e costumi.

Segue un’affermazione di una ignoranza talmente crassa e patetica da lasciare interdetti. Versare da bere a qualcuno equivarrebbe ad essere una geisha.

L’autrice, essendo giapponese, sa perfettamente che per diventare geisha occorrono anni e anni di durissimo addestramento quotidiano e che, diversamente da quanto mostrato in un film disgustoso che non cito tratto da un romanzo scritto male e concepito peggio, la professione della geisha non ha nulla a che vedere con il sesso. La geisha è una professionista versata in molteplici arti, che gode di dignità e rispetto. I curiosi possono andare a leggere la biografia Storia di una Geisha, di Iwasaki Mineko, e vedere come stanno le cose davvero.

Chi si è trovato a viaggiare in Giappone sa che i più giovani versano da bere ai più anziani, perché è così che si fa. Non c’è nulla di oppressivo in questo, non più di quanto sia oppressivo togliersi le scarpe quando si entra in casa, o salutarsi chinando il capo.

Poche righe dopo, va ancora meglio.

 

If anything, the existence of forbidden waza for women alone spoke to the restriction of waza based on masculine hegemony and the erotic perspective. Surprisingly, such rules were not revised for over a decade. Techniques that ostensibly lacked femininity were taboo for women at that time. These included the Uchi Mata (内股), Ouchigari (大内刈), Kochigari ( 小内刈), and NEWAZA (寝技). These techniques are now the most popular Techniques among womens judokas.

 

In ogni caso, la presenza stessa di waza proibiti esclusivamente alle donne indicava una restrizione delle tecniche fondata sull’egemonia maschile e su una prospettiva erotica. È sorprendente che tali regole non siano state riviste per oltre un decennio. Le tecniche ritenute allora prive di femminilità erano considerate tabù per le donne: Uchi Mata (内股), Ōuchi-gari (大内刈), Kōuchi-gari (小内刈) e Newaza (寝技). Oggi proprio queste tecniche sono tra le più popolari fra le judoka.

Qui siamo veramente a livello da Simone de Beauvoir. Vediamo i fatti.

In quale misura e su quale criterio uchi mata sarebbe meno femminile di Ōsoto gari? L’autrice non lo spiega. Dobbiamo semplicemente credere che il problema sia la pruderie del maschio prevaricatore.

Alcune precisazioni. Nella mitologia giapponese, il Giappone viene concepito da Izanagi no Mikoto e Inazami no mikoto, due kami che scendono sulla terra e si cimentano in un rapporto sessuale dopo essersi sposati ritualmente. Detto in altre parole: all’origine del Giappone c’è un rapporto sessuale tra un kami maschio e un kami femmina.

Ci sono feste tradizionali in cui statue di legno rappresentanti vulve e falli vengono portate in trionfo da uomini e da donne. E non esistono da ieri: precedono la fondazione del Kōdōkan di diversi secoli. Fino a non molto tempo fa, le terme erano miste. Uomini e donne stavano nudi nelle stesse vasche. Le donne a volte lavoravano nei campi con il petto nudo. C’è una ricchissima e molto variegata tradizione di stampe shunga 春画 che raffigurano scene erotiche della natura più fantasiosa. Come coesiste tutto questo con l’idea che l’egemonia patriarcale abbia costretto le donne a non usare uchi mata in gara?

 

9 REGOLE PER LE DONNE GIAPPONESI

Siamo al 1978, l’anno del primo campionato nazionale giapponese. L’autrice ci dice:

 

Japanese women were required to wear shortsleeved white roundneck shirts, sport a white

striped black belt, and tie long hair.

 

Alle donne giapponesi era richiesto di indossare magliette bianche a maniche corte con scollo tondo, portare la cintura nera con la striscia bianca e raccogliere i capelli lunghi.

 

A parte la cintura, quale sarebbe il problema di avere i capelli raccolti e di indossare una maglietta sotto il jūdōgi non ci viene spiegato, ma viene presentato come una cosa che agli uomini non è richiesto. Probabilmente per via delle evidenti distinzioni anatomiche tra il torso maschile e quello femminile.

Questo però è il meno. Ecco un passaggio più saliente:

 

In Yamaguchis opinion, the game rules for women imputed the male desire for aggression onto women. She felt that the rules insulted all female judokas because prohibitions such as Dont grab opponents hair were meant only for women. According to her, all judokas, regardless of whether they were male or female, knew not to grab their opponents hair even if it was not specifically banned. Yamaguchi thus felt that the rules were generated out of a male perspective of what could be expected from women and were thus demeaning.

 

Secondo Yamaguchi, le regole di gara per le donne attribuivano alle donne il desiderio maschile di aggressività. Ella riteneva che le regole offendessero tutte le judoka perché divieti come “non afferrare i capelli dell’avversaria” erano intesi solo per le donne. A suo avviso, tutti i judoka, indipendentemente dal fatto che fossero uomini o donne, sapevano di non dover afferrare i capelli dell’avversario anche se ciò non era specificamente vietato. Yamaguchi ritenne dunque che le regole fossero generate da una prospettiva maschile su ciò che ci si poteva aspettare dalle donne e fossero quindi umilianti.

 

La Yamaguchi, e la Mizoguchi di conseguenza, sicuramente non possono non sapere che una esplicita proibizione circa l’afferrare in capelli era già parte del regolamento maschile nel 1960. Il Regolamento del Kōdōkan jūdō per i Combattimenti dice che fra gli atti proibiti vi sono

 

「相手の髪の毛をつかむこと」 L’afferrare i capelli dell’avversario.

 

Una posizione identica si trova nel regolamento dell’International Judo Federation del 1967.

Quindi, è evidente che la menzione della proibizione di afferra i capelli non è, come afferma erroneamente la Yamaguchi, il risultato della “prospettiva maschile” su ciò che ci si può aspettare dalle donne, ma è esattamente ciò di cui l’autrice lamenta l’assenza: l’estensione anche alle donne delle medesime regole degli uomini.

 

10 CONCLUSIONI

E siamo ai punti finali. Dopo avere passato quasi tutto lo studio a spargere assunti aprioristici e conclusioni arbitrarie come se fossero dati di fatto inoppugnabili, l’autrice afferma:

 

A further reason that Kano prohibited matches in womens judo may have been an interest in creating judo as play (womens judo) through kata and melees as an antithesis to matches (mens judo).

 

Un’ulteriore ragione per cui Kanō proibì gli incontri nel jūdō femminile potrebbe essere stata l’interesse a creare un “jūdō come gioco” (jūdō femminile) attraverso i kata e le risse, come antitesi agli incontri (jūdō maschile).

 

Adesso si tratta di “may”. “potrebbe”. Poi, c’è una notevole e curiosa mancanza di precisione nel differenziare shiai e randori. L’autrice parla di matches, e melees, quindi è difficile stabilire a cosa esattamente si stia riferendo.

 

Kano is also said to have spoken of kata as grammar and matches as essays (Noritomi,1972).

 

Si dice anche che Kanō abbia parlato del “kata” come della grammatica e degli “incontri” come dei saggi (Noritomi, 1972).

 

Qui c’è un’altra inconcepibile (a mio avviso) dimostrazione di completa mancanza di metodo e di rispetto per il lettore. Gli scritti di Kanō sono nella stessa lingua dell’autrice. Basta veramente poco per andare a verificare cosa Kanō abbia o non abbia detto. Non si può, o meglio non si dovrebbe, usare una fonte secondaria invece di citare direttamente le parole esatte di Kanō, non in qualcosa che lo riguarda così da vicino.

 

Prewar, the Kodokan womens division constituted womens physical education for daughters of the Tokyo upper class as a part of good wife, wise mother education, with no matches being held. In contrast, the women of the Butoku Kai were primarily from the provincial middle class, taking part in judo in a liberal atmosphere with matches and melees held regardless of gender.

 

Prima della guerra, la sezione femminile del Kōdōkan costituiva l’educazione fisica femminile per le figlie dell’alta società di Tōkyō come parte dell’educazione di “buona sposa, saggia madre”, senza che si tenessero incontri. Al contrario, le donne della Butokukai provenivano principalmente dalla classe media provinciale e praticavano jūdō in un’atmosfera liberale, con incontri e scontri che si svolgevano senza distinzione di genere.

 

Qui l’autrice vorrebbe convincerci che il Kōdōkan fosse al servizio dell’ideologia oppressiva che voleva trasformare le donne unicamente in buone sposa e madri sagge, mentre il Butokukai era un’istituzione liberale in cui le donne si allenavano insieme agli uomini.

Questo è un rovesciamento completo e intellettualmente disonesto della realtà. Primo, il Kanō aveva concepito il Kōdōkan jūdō perché fosse ideologicamente neutro, in modo che chiunque potesse praticarlo, e nessuno dei suoi scritti dice, né esplicitamente né implicitamente, che il jūdō femminile serve a trasformare le donne in buone spose e sagge madri. Questa era certamente l’aspettativa dell’epoca, ma si tratta della cultura giapponese, maschile e femminile, di quell’epoca, non della volontà di Kanō o di una decisione deliberata del Kōdōkan. Secondo, il Butokukai era a tutti gli effetti una istituzione collegata al governo e pienamente coinvolta nella diffusione dell’ideologia militarista, quindi sostenere che la sua atmosfera fosse liberale è una sciocchezza. In aggiunta, come abbiamo visto, Kosaki fu l’eccezione, non la regola, di conseguenza è scorretto e fuorviante cercare di convincere il lettore a credere che l’allenamento misto al Butokukai fosse la prassi.

 

E infine, il colpo di grazia.

 

Because the Butoku Kai ( Martial Virtue Society) and kosen (technical college) judo had collapsed after the war, a myth became established and accepted, with Kodokan judo coming to represent legitimate judo and the Butoku Kai and kosen judo as heretical judo.

 

 

Poiché il Butokukai (“Società della Virtù Marziale”) e il jūdō dei kōsen (scuole tecniche superiori) erano crollati dopo la guerra, si affermò e venne accettato un mito, secondo cui il jūdō del Kōdōkan rappresentava il “jūdō legittimo”, mentre il jūdō della Butokukai e quello dei kōsen erano considerati “jūdō eretico”.

 

Secondo l’autrice, il fatto che il Kōdōkan jūdō sia il jūdō legittimo sarebbe un mito. Nonostante Kanō, come abbiamo visto, abbia scritto esplicitamente che anche il Butokukai usava il Kōdōkan jūdō, e dunque anche quello del Butokukai era Kōdōkan jūdō. Nonostante il Kōdōkan fosse nato prima del Butokukai e nonostante Kanō, non il Butokukai, avesse sviluppato il jūdō. Tra l’altro, il Kōsen jūdō ha tutt’altra derivazione, quindi associarlo al Kōdōkan jūdō e al Butokukai non ha molto senso.

 

C’è da rimanere interdetti. Come si fa a pubblicare una cosa del genere senza che nessuno protesti, senza che nessuno dica nulla? Dov’è il tanto vantato rispetto per Kanō Jigorō e per la sua “creatura”, come la chiamano alcuni? Per i suoi principi e i suoi valori? Per la Storia vera, non per le fandonie confezionate ad arte per portare acqua al mulino di questa o di quella corrente ideologica?

 

Lo studio in questione ignora sistematicamente le fonti storiche, manipola concetti e avanza affermazioni prive di documentazione. Non si tratta di semplici imprecisioni: è una pratica che, quando rivestita di veste accademica, produce mistificazione e non conoscenza.

È un dovere denunciarlo. Non soltanto per rispetto della verità storica, ma anche per rispetto verso Kanō Jigorō, il fondatore del Kōdōkan, che con i suoi scritti e le sue azioni ha reso possibile anche alle donne l’accesso al jūdō.

Che affermazioni di questo genere siano state pubblicate in ambito universitario senza contestazioni è sintomo di un problema strutturale: il conformismo ideologico che antepone un’interpretazione precostituita alla verifica dei fatti. Lasciare che questo avvenga significa tradire non solo la memoria di Kanō, ma il principio stesso su cui il Kōdōkan jūdō si fonda: la ricerca sincera della verità attraverso lo studio e la pratica.


 Emanuele Bertolani

 

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