Judo e hijab

Judo 柔道 e hijāb حجاب‎‎ 



Perché, e perché adesso

Di questi tempi si fa un gran parlare di immigrazione, integrazione e problemi, o possibilità, ad esse correlate. Si tratta di un tema estremamente serio, pressante, che riguarda in maniera trasversale i cittadini di qualsiasi nazione dove questi fenomeni siano all'opera. Posto che ciascuno ha la propria opinione in merito, ho pensato di scrivere un articolo un po' più provocatorio del solito e vedere se c'è modo di innescare un dibattito. Come praticanti di arti marziali, come cittadini di nazioni oggetto di immigrazione e soggette alla necessità dell'integrazione, quale posizione assumiamo? Dove collochiamo noi stessi?


ADDENDUM (2/10/2017)

Aggiungiamo un ulteriore dettaglio a completamento del quadro di cui sotto, del quale siamo recentemente venuti a conoscenza. L'Islām si fonda sul concetto di tawḥīd توحيد, cioè il concetto dell'unicità indivisibile del monoteismo islamico. Tutto ciò che contraddice il tawḥīd è considerato shirk شرك‎‎ , il più grave peccato possibile nell'Islām. Lo shirk può essere commesso in vari modi, e uno di questi è inchinarsi di fronte a qualunque cosa o persona all'infuori della divinità. In altre parole, il saluto comunemente impiegato nel jūdō e in innumerevoli altre manifestazioni della cultura giapponese è, dal punto di vista di un musulmano osservante, una forma di shirk. 


Alcuni dati di fatto

Il tema è delicato e discuterne è complesso per una serie di fattori, fra i quali una generale mancanza di informazioni corrette e concrete e la inevitabile difficoltà di attingere direttamente alla fonte, perché parlare arabo, in particolare l'arabo coranico, non è da tutti.
Tuttavia, vi sono alcuni dati che si possono sintetizzare come segue:
  1.  Il cosiddetto "velo" è aspramente dibattuto all'interno del mondo musulmano per due ragioni: la prima è che non esiste una autorità religiosa mondiale che detti legge in maniera univoca, come il Papa per il cattolicesimo. La seconda è che la fonte per eccellenza, il Corano, ne parla in termini ambigui, riferendosi, nella Sura 24 versetto 31, a un "portare il proprio khimār sul proprio petto". Con khimār si intende un indumento usato per coprire la testa, non il volto, donde tre possibili interpretazioni: portare l'indumento sul petto, lasciando scoperto il capo. Portare i lembi dell'indumento sul petto, coprendo i capelli e le orecchie ma lasciando scoperto il viso. Portare l'indumento sul petto, coprendo completamente il viso.
  2. La pratica di coprire, parzialmente o completamente, il capo è chiamata generalmente hijāb, dalla radice h-j-b che significa "rendere invisibile, nascondere". 
  3. La pratica è inserita nel contesto dell'invito alla modestia, che riguarda sia gli uomini (lasciare crescere la barba, non portare pantaloni sopra il ginocchio o camicie sopra il gomito, non scoprire il petto, non indossare vestiti di seta se non per esigenze mediche) che le donne (non indossare vestiti attillati, evitare di attirare l'attenzione). Il perché gli standard siano diversi viene spiegato con il fatto che uomini e donne sono oggettivamente diversi, dunque le regole che si applicano sono diverse.  
  4. La pratica dello hijāb è avversata e sostenuta tanto dagli uomini che dalle donne. Per alcuni, come la sociologa marocchina Fatima Mernissi, si tratta di una tradizione senza fondamento nel Corano che discrimina le donne, per altri, e fra queste molte donne, si tratta invece di una dichiarazione di identità e di una forma di protezione dalla mercificazione della bellezza femminile. 
  5. La pratica dello hijāb  non è esclusiva della civiltà islamica e non è nata con essa. I primi esempi risalgono addirittura alla legislazione assira in Mesopotamia. 

Una ricerca giapponese

Un gruppo di studenti dell'Università Tōkai gakuin, i cui cognomi sono Hizuka, Koumoto, Yamada, Uemizu, Satou e Shirose, ha prodotto un breve articolo accademico, che vi sottopongo in traduzione (vai all'articolo originale)

IN MERITO ALL'AUMENTO DELLA PARTECIPAZIONE DELLE ATLETE MUSULMANE ALLE COMPETIZIONI DI JUDO, E IN MERITO AL FOULARD

Introduzione
Nel 1882, il Kōdōkan jūdō venne fondato ad opera di Kanō Jigōrō, e nel 1926 mosse i primi passi la sezione femminile del Kōdōkan. Dopo la guerra, le attività si ampliarono oltre oceano, con l'adozione del judo come eventi formali di competizione olimpica nel 1964 alle olimpiadi di Tokyo, per le categorie maschili, e nel 1992 alle olimpiadi di Barcellona per le categorie femminili. 
     Attualmente, si è giunti a 195 nazioni affiliate alla Associazione Internazionale Judo. Negli anni recenti, i risultati ottenuti nelle competizioni mondiali dagli atleti maschili provenienti dall'area islamica sono andati crescendo, con l'ottenimento di numerose medaglie sia olimpiche che nelle competizioni mondiali. Tuttavia, non si è registrata la vittoria di alcuna atleta femminile proveniente dall'area islamica nell'ambito di competizioni formali. Nella presente lavoro si è portato avanti uno studio di ricerca per volto a valutare l'idea che uno dei fattori che possono ostacolare la diffusione del judo femminile nell'area islamica sia il foulard (velo) che si avvolge intorno alla testa. Riportiamo qui la conoscenza parziale che abbiamo ottenuto.

Metodo
L'esperimento condotto nel presente lavoro è consistito in un allenamento di randori indossando una t-shirt con cappuccio, un indumento adatto al judo che si avvicina al foulard. Al termine dell'allenamento, abbiamo proposto un sondaggi a venti soggetti e ne abbiamo raccolto e valutato in dati. I temi del sondaggio comprendevano principalmente il materiale del cappuccio, se si sentisse che indossare il cappuccio fosse vantaggioso o svantaggioso per l'esecuzione sia di nage waza che ne waza nella pratica del randori, se si sentisse che il fatto che la compagna indossasse il cappuccio fosse un vantaggio o uno svantaggio, se questo non fosse d'intralcio all'esecuzione della presa okueri, se non fosse d'intralcio all'esecuzione degli shime waza in ne waza etc.

Risultati e considerazioni
Per quanto riguarda il materiale, 20 persone su 20 affermano che la ridotta visibilità e il rischio che il cappuccio scivoli erano una preoccupazione, 19 su 20 affermano che la traspirabilità era una preoccupazione. Pertanto, è risultato che il materiale del cappuccio è problematico e si rende necessaria una sua correzione. 
All'atto di affrontare in piedi un avversario che indossava il cappuccio, la maggior parte delle atlete, 17 su 20, ha affermato di non avere avvertito alcuna difficoltà. Fra le atlete che indossavano il cappuccio è leggermente superiore il numero, 6 su 20 nel caso degli strangolamenti e 8 su 20 nel caso delle leve, di coloro che affermano di essersi sentite in svantaggio al momento di ritrarsi o di attaccare una avversaria a quattro zampe. Si è visto che indossando il cappuccio è il lavoro sugli shime waza e sui kansetsu waza è più svantaggioso. Indossare il cappuccio influenza più facilmente il ne waza che il tachi waza. In particolare, si sente l'esigenza di accorgimenti che ne impediscano l'influenza negativa quando si eseguono shime waza.  



La parola a noi

Noi, personalmente e in tutta onestà, non vediamo nulla di male nella pratica dello hijāb in sé, se scelta liberamente e con cognizione di causa, e di conseguenza trovo che permettere la pratica del judo indossando lo hijāb potrebbe aiutare la transizione verso un diverso modo di concepire il rapporto uomo-donna e quello con il proprio corpo, facilitando quel processo di integrazione che oggi sembra zoppicare un po' dappertutto.

D'altro canto, ci sembra che il saluto, nel jūdō come in altre arti di combattimento, non sia negoziabile, con il rischio di allontanare potenziali praticanti per via del conflitto che si innesca fra l'etichetta richiesta agli studenti e l'osservanza ai precetti della loro fede.

Restiamo in attesa dei vostri commenti, che sono certo, dato la peculiarità dell'argomento, non mancheranno di essere costruttivi e rispettosi della diversità, pur nell'eventuale dissenso.

Fino alla prossima volta

Acqua Autunnale

Gasshō _/\_



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